Il sangue di San Gennaro

Li ho visti andare e venire, attraverso continenti e oceani, ma ho nascosto le tracce dei loro passi. Dove soffio io, non resta più nulla. Sono io che dico l’ultima parola. E poi verrà il silenzio.

STEFANO BOTTONI parla di “Il sangue di San Gennaro”, di Sándor Marai
Domenica 27 marzo 2022, ore 11:00 Le Lezioni di storia del Libro della vita, Auditorium di Scandicci

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Il sangue di San Gennaro

“A Pasqualino, perché aveva sei anni e ogni mattina portava giù l’immondizia, al pescatore monco, perché ammansiva il mare, a santo Strato, perché proteggeva il palazzo e i malati”: a loro Màrai dedica il suo “romanzo napoletano”, ambientato nella città dove visse dal ’48 al ’52, prima di partire per gli Stati Uniti. A formare il vasto coro, lacero e sgargiante, che commenta la vicenda intorno a cui è costruito il libro sono gli uomini, le donne e i bambini della città, con la loro miseria, il loro lerciume, la loro fatica di vivere e il loro orgoglio ancestrale di aristocratici; e le interminabili chiacchiere, le liti che scoppiano furibonde, teatrali, ritualizzate, da una finestra all’altra, i lutti non meno teatrali e urlati, i santi arcigni e polverosi dentro le teche di vetro – con la loro umanità piagata e ghignante. Un intero popolo che, fra tutte le possibilità, crede che “la più verosimile” sia il miracolo. Un giorno, dalle parti di Capo Posillipo, vanno ad abitare due stranieri, un uomo e una donna (inglesi? polacchi?): displaced persons, così li definiscono le autorità, profughi. Anche loro, almeno per un po’, crederanno che lì possa avvenire il miracolo. Ma durante una violenta tromba d’aria si verificherà un evento che avrà il senso di una delusione assoluta, di una sconfitta inappellabile, poiché sancirà l’impossibilità di credere che ci sia un futuro per chi, in quanto esule, ha perso la propria identità. Alla fine, rimarranno il Vesuvio, il mare, e per ultimo il vento.

Sándor Marai

Scrittore, poeta e giornalista ungherese. Nato nell’odierna Kosice, in Slovacchia divenne collaboratore della «Frankfurter Zeitung». Nel 1928 si trasferì a Budapest dove, nel corso del ventennio successivo, pubblicò numerosi romanzi in lingua ungherese  che si soffermano a indagare le pieghe più intime di personaggi che incarnano il malinconico disfacimento della mitteleuropa. Benché premiate dal successo, le sue opere vennero bollate come «realismo borghese» dall’intellighenzia del nuovo regime comunista. Nel ’48 Márai quindi fu costretto a lasciare l’Ungheria per stabilirsi – dopo brevi soggiorni in Svizzera e in Italia – negli Stati Uniti.

D’indole schiva e solitaria, continuò a scrivere nella sua lingua madre circondato dall’indifferenza e sempre più emarginato. Una serie di drammi condusse lo scrittore sulla via dell’isolamento. e della  depressione. Màrai si tolse la vita con un colpo di rivoltella. Le sue ceneri furono disperse nel Pacifico. La sua produzione, a lungo ignorata o negletta, a partire dalla prima metà degli anni ’90 ha conosciuto uno straordinario successo, prima in Francia e poi nel resto dell’Europa.

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