Diario di una maestrina

Docente di lungo corso di Storia contemporanea e di Storia politica e sociale dell’età contemporanea all’Università di Firenze, Simonetta Soldani ha conosciuto il suo “libro della vita” molto prima degli anni universitari: ha acquistato Diario di una maestrina in quinta ginnasio con i soldi fatti grazie alle ripetizioni estive date nel 1957, spinta delle ottime recensioni e perché segnalato con la “palma d’oro” dell’Unione Donne Italiane su Noi Donne. Lo conserva ancora oggi con grande amore a distanza di sessant’anni.

Quando si pensa alla scuola italiana, forse il libro che ci viene in mente è Cuore di De Amicis. In realtà, presentare la scuola con tutto quel buonismo, con gli scolari di ceti sociali diversi che si amano e si abbracciano sono elementi distanti dalla realtà dei fatti. Io sono sempre stata affascinata dalle storie vere, in particolare quelle singole persone; il Diario di una maestrina è una di queste e rileggendolo più volte trovo sempre sfumature diverse che mi sorprendono e mi arricchiscono.

Negli anni Cinquanta usciva un articolo di Leonardo Sciascia su “Nuovi argomenti”: veniva descritta una situazione tragica, di una scuola che “non si fa carico e non sa dialogare con la realtà”. Spinta forse da questa articolo, Maria Giacobbe ha voluto raccontare la scuola italiana di quegli anni, attraverso la sua esperienza didattica nel Nuorese. In diario di una maestrina, emerge tutta l’estraneità dei programmi scolastici rispetto ai ragazzi a cui si rivolgono, che vivono in ambienti ben distanti da Roma e dal Ministero.

Maria Giacobbe è infatti testimone di storie incredibili: vede ragazze e ragazzi che hanno come unico pensiero quello di avere da mangiare e legna per riscaldarsi; racconta di una società che cerca di preservare i bambini maschi, più utili al nucleo familiare: loro d’inverno possono andare a scuola con qualche vestito di lana mentre le bambine arrivano scalze e con indumenti di cotone nonostante le temperature gelide. In questi luoghi non si parla italiano ma nemmeno un dialetto simile a quello della città vicina, come Nuoro. La carta non c’è e l’alfabeto non serve, visto che nei piccoli paesi le uniche scritte sono “BAR”. Le case sono minuscole e il pavimento è di terra battuta. L’unico letto è riservato alle donne adulte: i bambini dormono in terra, su delle stuoie, insieme agli anziani nell’unico vano presente.

Di questi ambienti parla Maria Giacobbe nei suoi racconti, dove viene vista inizialmente come una straniera perché parla una lingua diversa. Lì viene rispettata non per il suo ruolo ma per la capacità di catturare una biscia, cosa inusuale per le donne del luogo. Un libro duro ma che racconta con leggerezza, affetto, comprensione l’umanità e un aspetto della prima Italia del Dopoguerra. E’ un testo che contiene un filo di speranza: ed è forse per quello che l’ho sempre amato.

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Foto: Claudio Giachi

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